Attività varie › AGENZIA DELLE USCITE

Raccolta di articoli e dati per lo stimolo alla creazione di una Agenzia delle Uscite per migliorare l’utilizzo del denaro pubblico frutto dell’incasso dei tributi attuato con l'Agenzia delle Entrate. La corruzione e l'evasione non sono altro che le du facce della stessa medaglia. La maggior parte di essi pervengono da  Eutekne.info.

Quel buco nei controlli delle Regioni già segnalato dai commercialisti

L’enormità degli scandali ormai appurati in seno alla Regione Lazio e la graduale emersione di una gestione quantomeno allegra dei rimborsi spese anche in molte altre Regioni, comprese quelle del virtuoso Nord, sta finalmente facendo smuovere le acque verso controlli meno evanescenti.

Sarà un caso, ma proprio i commercialisti italiani avevano lanciato, già nel 2009 e poi negli anni successivi, il loro allarme: le Regioni, centro nevralgico dell’infrastruttura statale e centro di spesa di primaria importanza, erano e sono tuttora le uniche articolazioni territoriali a non prevedere l’obbligo di nomina di un Collegio di revisori dei conti, come previsto invece per Province e Comuni.

In verità, anche gli Statuti di tutte le Regioni italiane prevedono un Collegio di revisori dei conti, ma la denominazione non deve trarre in inganno: non si tratta infatti di un collegio di tecnici indipendenti appositamente nominati (come avviene anche negli enti locali), ma di tre, cinque o più Consiglieri regionali.
In pratica, un collegio dei revisori composto da politici essi stessi oggetto della revisione, invece che da revisori terzi, professionisti e indipendenti.

Sulle ali degli scandali e dell’indignazione popolare, il Governo ha approvato ieri un decreto legge che detta nuove regole finalizzate a riequilibrare la situazione finanziaria di enti locali in difficoltà nonché a favorire la trasparenza e la riduzione dei costi degli apparati politici regionali, nell’obiettivo di assicurare negli enti territoriali una gestione amministrativa e contabile efficiente, trasparente e rispettosa della legalità. Modifiche normative – oltre che, in previsione, costituzionali, visto che l’Esecutivo, in base a quanto dichiarato ieri dal Premier Monti, sta lavorando a una proposta di legge costituzionale per rivedere la ripartizione di competenze tra Stato e Regioni – finalizzate a introdurre per le Regioni un controllo preventivo sulla legittimità degli atti e delle determinazioni di spesa.

Ottima cosa, ma il salto di qualità, come da tempo predichiamo, si avrà solo quando alla Corte dei Conti verranno attribuiti poteri di controllo dotati di pervasività ed esecutività comparabili a quelli che, per sconfiggere l’evasione fiscale, sono stati progressivamente attribuiti all’Agenzia delle Entrate.

Perché un avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, nei confronti di un cittadino cui viene contestato di non essere stato un diligente contribuente, può avere efficacia esecutiva anche in pendenza di giudizio, mentre un atto di contestazione elevato dalla Corte dei Conti, nei confronti di un cittadino cui viene addebitato di non essere stato un diligente amministratore della cosa pubblica, non può avere pari efficacia?

Eppure, è in gran parte qui la differenza tra i notevoli passi avanti compiuti sull’effettivo recupero da parte dello Stato delle somme contestate agli evasori, rispetto al quasi nullo recupero effettivo di quelle contestate a politici corrotti, dissipatori e dipendenti infedeli dello Stato.

La Corte dei Conti deve diventare un’Agenzia delle Uscite

Diamo quindi corso a questo benedetto upgrade della Corte dei Conti in Agenzia delle Uscite.
In Senato, giace già un disegno di legge in tal senso, scaturito proprio dal dibattito sorto sul tema sulle colonne di Eutekne.info e fatto anch’esso ufficialmente proprio dai commercialisti italiani lo scorso maggio.
Senza questo passaggio, l’approvazione della cosiddetta legge anti-corruzione, per quanto auspicabile in ogni caso, otterrà soltanto di inasprire sanzioni per fattispecie di reato già contemplate e di introdurne di nuove, ma non potrà in alcun modo essere risolutiva.

Parafrasando una nota e fortunata pubblicità di pneumatici: la sanzione è nulla senza il controllo.

05.10.2012

L’Agenzia delle Uscite prima della fine della Legislatura

Per i firmatari del Ddl. i tempi attuativi ci sono. Verrà calendarizzato a settembre, ma potrebbe anche diventare un emendamento agli Omnibus.

Un piccolo risultato è già stato raggiunto: evitare che il Ddl. sull’Agenzia delle Uscite finisse in uno dei tanti cassetti di Palazzo Madama, senza riuscire ad essere portato anche solo in Commissione prima della fine della Legislatura. Il disegno di legge recante “Delega al Governo per l’istituzione dell’Agenzia delle Uscite” verrà, infatti, calendarizzato a settembre e dovrebbe finire all’attenzione di una Commissione congiunta Affari costituzionali-Bilancio.

Ad annunciarlo, nel corso di una conferenza stampa tenutasi ieri, nella sala Nassirya del Senato, sono stati Maurizio Fistarol, Maria Leddi, Nicola Rossi ed Enrico Musso, ovvero i quattro firmatari del disegno di legge. Aumentano, dunque, le possibilità che la legge delega, che obbliga il Governo a istituire l’Agenzia delle Uscite, veda la luce prima della fine di questa Legislatura, anche perché, come ha spiegato Maria Leddi, ci sono altri canali da poter sfruttare per la sua approvazione: “Un simile disegno di legge – ha sottolineato la senatrice del Pd – non può che andare in una Commissione congiunta, che crediamo possa essere quella Affari costituzionali-Bilancio. Le congiunte sono sempre più difficili da far incamminare, però, nulla vieta che, se dovesse esserci un diffuso consenso sulla proposta, il testo possa venire trasformato in emendamento e proposto in un provvedimento Omnibus che sia in grado di accogliere la materia. I tempi attuativi ci sono. Io sono sempre abbastanza favorevole ad avere il doppio canale, perché leggi di iniziativa parlamentare che riescono a trovare sbocco devo ancora vederne, soprattutto in una stagione come questa, condizionata da priorità di intervento da parte dell’Esecutivo”.

Molto passerà dal consenso che la proposta riuscirà a suscitare in sede di Commissione. Ma è così scontato che un’Agenzia in grado di indagare in profondità e irrogare sanzioni anche immediatamente esecutive possa ottenere l’appoggio di politici e membri della Pubblica Amministrazione? Secondo Leddi, “riusciremo a scoprirlo abbastanza in fretta”. Per Maurizio Fistarol, primo firmatario del Ddl., la risposta, ottimistica, è già più definita: “Io credo di sì – ha spiegato il senatore di Verso Nord –. C’è una gran parte della Pubblica Amministrazione che lavora bene e ha tutto l’interesse a vedere rivalutata la propria immagine. Il problema è che, oggi, è all’interno di un meccanismo del tutto privo di controllo. Quanto alla classe politica, il consenso arriverà certamente, perché ormai è evidente che, senza un controllo efficace della spesa pubblica, non è possibile arrivare alla riduzione della pressione fiscale, indispensabile perché il Paese possa ripartire”.

Nel corso della conferenza stampa, Fistarol ha parlato anche dei benefici che potrebbe trarre lo Stato dall’istituzione di un’Agenzia delle Uscite che abbia gli stessi poteri delle Entrate: “Controllare strutturalmente le poste a bilancio non basta. Per fortuna, si sta iniziando a lavorare dal punto di vista del controllo della spesa, ma manca uno strumento operativo per avere le informazioni, poterle monitorare e poi intervenire nei confronti di chi spreca il denaro pubblico”.

Fistarol ha poi ricordato che il disegno di legge prevede che l’Agenzia venga istituita con invarianza di costi per il bilancio dello Stato, ma anche che il denaro stanziato per il suo funzionamento produca, in proporzione, molto di più di quanto accada con le Entrate: “Se per l’Agenzia delle Entrate il costo annuo stimato è di 3 miliardi e le somme recuperate sono circa 4 volte tanto, l’Agenzia delle Uscite costerà molto meno, perché si rivolge a una platea selezionata, e potrà consentire un recupero, in proporzione, molto maggiore”.

Come detto, il nuovo ente, ideato da Eutekne.info e rilanciato dal CNDCEC, dovrebbe avere gli stessi poteri coercitivi e sanzionatori dell’Agenzia delle Entrate, compresa la possibilità di inviare degli avvisi di accertamento immediatamente esecutivi (nella misura del 30%), al quale ci si potrà opporre facendo ricorso alla Corte dei Conti. “Una scelta doverosa – ha commentato il senatore del Pli, Enrico Musso – per ristabilire una simmetria che oggi non c’è. Quando si parla di Entrate e contribuenti da un lato e denaro pubblico dall’altro, stride la diversità di tecniche di accertamento, di livello di rigore, sanzioni e effettività delle stesse. Da liberale, sono molto dubbioso sul fatto che gli accertamenti immediatamente esecutivi siano legittimi, ma quando lo eccepisco, mi viene detto che, soprattutto in questo periodo, sono una necessità, altrimenti le lungaggini dei contenziosi farebbero sì che i soldi o non arrivino o arrivino troppo tardi. Bene, se dobbiamo accettare, turandoci il naso, questo tipo di metodi che stonano con il diritto e il buon senso, dobbiamo almeno pretendere che gli stessi metodi vengano utilizzati nei confronti di chi dissipa il denaro dei cittadini”.

Agenzia delle Uscite: ieri provocazione, oggi disegno, domani?

Piccole Agenzie delle Uscite crescono.
Era lo scorso dicembre, quando Eutekne.Info lanciò il tema dell’Agenzia delle Uscite, intesa come organismo dotato di poteri speculari a quelli dell’Agenzia delle Entrate, ma finalizzati alla lotta agli sprechi, alle dissipazioni e alla corruzione nel settore pubblico.

Si era all’indomani del Decreto “Salva Italia”, nel pieno fulgore di quel giacobinismo fiscale secondo cui, nonostante sul fronte della lotta agli sprechi e alla corruzione non si stesse facendo quasi nulla, l’unico tema meritevole di essere portato ossessivamente all’attenzione della pubblica opinione era che, nonostante le tante misure introdotte, non si stava comunque facendo abbastanza contro l’evasione fiscale.

In un simile clima, la proposta dell’Agenzia delle Uscite, con funzioni di controllo e repressione sulle eccessive spese speculari a quelle dell’Agenzia delle Entrate sui mancati incassi tributari, trovò subito ampi consensi tra liberi professionisti e piccoli imprenditori, ma, al di fuori del mai sufficientemente ascoltato popolo delle partite IVA, apparve ai più benevoli censori come una provocazione.

Ai meno benevoli, come un volontario e vergognoso depistaggio rispetto al preteso e presunto tema dei temi, la lotta all’evasione fiscale, portato avanti con biasimevole astuzia da chi, in fin dei conti, è amico dell’evasione fiscale.
Eppure, già allora non serviva essere dei guru della sociologia per capire che il sempre più pronunciato squilibrio tra determinazione legislativa e tensione morale nella lotta contro coloro che rubano ai concittadini non versando il dovuto, e la corrispondente determinazione e tensione nella lotta contro coloro che rubano ai concittadini sperperando quanto c’è nella cassa comune, avrebbe determinato molti più problemi alla coesione sociale del Paese di quanti benefici avrebbe portato alle casse dello Stato.

Il riequilibrio di questo squilibrio, ovviamente, non può essere fatto riportando indietro le lancette dell’orologio sul fronte della lotta all’evasione, ma proprio per questo motivo si rende necessario un deciso passo avanti sull’altro fronte.
Poco per volta, l’idea si è sempre più rafforzata all’interno del tessuto sociale presso cui era più facilmente destinata ad attecchire (tanto da divenire, lo scorso 30 maggio, in occasione della Assemblea annuale dei Delegati, proposta ufficiale dei commercialisti italiani) e si è fatta strada anche al di fuori di esso.

Il puntuale verificarsi, con il passare dei mesi, delle tensioni sociali anti-sistema e delle crisi di rigetto da “sultanato fiscale” ha fatto il resto.
Il deposito ieri in Senato del disegno di legge per l’istituzione di un’Agenzia delle Uscite è un segnale importante, nonostante, si sa, di disegni di legge siano pieni i cassetti del Parlamento.
Eppure, ciò che ieri era poco più di una provocazione e oggi è già quantomeno un disegno, può legittimamente aspirare a divenire un domani o un dopodomani realtà.

Piaccia o non piaccia, del resto, la direzione che l’Italia deve prendere è quella.
La direzione del dimagrimento dello Stato, nelle sue strutture, nelle sue spese e pure nei suoi organici.
La direzione di un Paese che non può più permettersi di avere grand commis di Stato che guadagnano più di imprenditori, dirigenti pubblici che guadagnano più di quadri aziendali e dipendenti pubblici “semplici”, la cui bassa remunerazione è dovuta anche al fatto che parte viene loro corrisposta in natura, sotto forma di inamovibilità a prescindere dalla qualità e utilità del loro operato, defraudando così innanzitutto coloro che, all’interno della Pubblica Amministrazione, consci del proprio valore, hanno più da perdere che da guadagnare da un sistema del genere.

La direzione anche, beninteso, di un Paese in cui l’evasione fiscale non può più essere tollerata; non però in quanto tale e perché, alla fin fine, servono i soldi per continuare come si è sempre fatto, bensì perché non viene più tollerata alcuna forma di illegalità diffusa, quale essa sia.

Il punto è capire con quanta riluttanza, lentezza e scarsa capacità percorreremo la strada che ci indirizza verso questa direzione. Se sarà troppa, come troppa è stata sino ad ora, il tempo finirà ben prima che si sia in vista del traguardo.

Depositato in Senato il disegno di legge sull’Agenzia delle Uscite

Primo firmatario Maurizio Fistarol, con lui Nicola Rossi, Maria Leddi ed Enrico Musso. Soddisfatto il CNDCEC: «È la direzione giusta». 

La proposta di istituire un’Agenzia delle Uscite capace di combattere in modo incisivo sprechi e corruzione nel settore pubblico, partita dalle colonne di Eutekne.info, rilanciata dal Presidente del CNDCEC Claudio Siciliotti e fatta propria dal senatore Maurizio Fistarol, è finalmente approdata in Parlamento. Proprio ieri, infatti, l’esponente di Verso Nord ha depositato a Palazzo Madama, quale primo firmatario (gli altri sottoscrittori sono Nicola Rossi, Maria Leddi ed Enrico Musso), il disegno di legge recante “Delega al Governo per l’istituzione dell’Agenzia delle Uscite”.

Un testo che consta di due articoli. Il primo è quello con cui si affida all’Esecutivo l’emanazione, “entro il 1° gennaio 2013 e senza maggiori oneri per la finanza pubblica, di uno o più decreti legislativi finalizzati all’istituzione di un’agenzia permanente preposta al monitoraggio della spesa pubblica”. Il secondo, invece, definisce principi e criteri che il Governo dovrà seguire nell’attribuzione dei poteri al nuovo ente. Stando al disegno di legge, l’Agenzia delle Uscite dovrebbe avere poteri di “controllo, ispezione e verifica sulle Pubbliche Amministrazioni, sugli enti parastatali e sui rispettivi addetti”, da espletare attraverso la possibilità di “richiedere la comunicazione per via telematica dei dati utili per il costante monitoraggio della spesa pubblica”.

Quei dati dovranno poi confluire all’interno di un’anagrafe della Pubblica Amministrazione. Il Ddl. prevede, inoltre, che l’Agenzia abbia la possibilità di irrogare sanzioni non solo nei confronti di coloro i quali non invieranno i dati o lo faranno in modo incompleto o non veritiero, ma anche per chi si renderà materialmente responsabile della dissipazione delle risorse pubbliche. Tali sanzioni dovranno essere “graduate in ragione della gravità della violazione, della reiterazione dell’illecito e dell’opera svolta per attenuare o eliminare le sue conseguenze”.

Quanto, infine, agli eventuali contenziosi che dovessero nascere a seguito delle sanzioni, si prevede la possibilità di ricorrere alla Corte dei Conti, “ferma restando l’immediata esecutività del provvedimento di condanna di almeno il 30% dell’entità della sanzione pecuniaria irrogata”. Una disposizione, quest’ultima, che ricalca quanto previsto in tema di accertamenti immediatamente esecutivi.

In effetti, come conferma lo stesso Fistarol, sono state proprio le norme relative ai poteri attribuiti all’Agenzia delle Entrate ad ispirare il testo del disegno di legge: “Abbiamo esaminato quella normativa molto attentamente – sottolinea il senatore di Verso Nord –, muovendoci in modo sostanzialmente speculare. L’obiettivo di questo Ddl., infatti, è quello di riequilibrare, in termini di attenzione e determinazione, la lotta all’evasione fiscale da un lato e quella a corruzione e sprechi delle risorse pubbliche dall’altro. Questo tema deve essere oggetto di un confronto politico molto più serrato di quello attuale. Il nostro disegno di legge serve proprio a questo. Ora abbiamo un punto fermo, un testo con il quale fare i conti, nella speranza che possa finalmente consentire di abbandonare le discussioni teoriche e passare ai fatti”.

Dello stesso avviso anche Maria Leddi, secondo cui l’Agenzia delle Uscite è necessaria per poter monitorare efficacemente la situazione della spesa pubblica: “Il disegno di legge – spiega la senatrice del Pd – è semplice, sintetico e, soprattutto, a costo zero. C’è bisogno di una legge che vada ad affrontare tecnicamente un problema che richiede un inquadramento normativo oggi assente. Un’Agenzia delle Uscite serve anche ad assecondare quanto ci si è proposti di fare con la spending review, i cui obiettivi saranno difficilmente raggiungibili senza un ente che abbia la capacità di imporre obblighi di trasparenza e irrogare sanzioni qualora non venissero rispettati”.

Non è il caso, però, di farsi illusioni circa una sua subitanea approvazione. La pensa così Nicola Rossi, altro firmatario del disegno di legge: “Quando si mettono in campo iniziative simili – spiega il senatore del Gruppo Misto – è meglio non farsi illusioni, perché una legge che tende a fornire gli strumenti, soprattutto in termini di sanzioni, per combattere sprechi e corruzione non incontra il favore di molti parlamentari. La logica con cui spesso si opera in Parlamento è tale per cui si fanno le leggi, ma poi non si forniscono gli strumenti per farle rispettare. Questo Ddl., invece, sfugge a questa logica, che è propria di un sovrano che tende a vedere solo i problemi dei sudditi, come l’evasione fiscale, ma mai quelli propri. In ogni caso, però, l’iniziativa imporrà almeno una discussione sul tema, in questo periodo quanto mai necessaria”.

Soddisfatto dell’avvenuta formalizzazione del Ddl. anche il Presidente del CNDCEC, Claudio Siciliotti, che, attraverso una nota, ha sottolineato come sia proprio questa la direzione giusta da seguire.

La «spending review» rischia di essere l’ennesima illusione

Negli ultimi tempi, “spending review” è la parola magica sulla bocca di tutti. Qualcuno dice che contribuirà a raggiungere l’azzeramento del deficit di bilancio. Per qualcun altro, servirà a finanziare le grandi opere, anche se nell’opinione di molti e nell’interesse di tutti potrebbe servire ad evitare l’ulteriore aumento dell’IVA, dal 21 al 23%.

Avendo la spesa pubblica raggiunto gli 820 miliardi, cioè quasi il 52% del PIL e oltre 13.500 euro a testa per ciascun italiano, per uno scopo o per l’altro, è indispensabile metterci mano. Analizzando le uscite annuali, vediamo che 87 miliardi se ne vanno per pagare gli interessi sul debito pubblico. Meno della metà del totale in pensioni e sussidi ai bisognosi. Resta l’altra parte, più della metà, circa il 24% del PIL, che è composta da spese fisse: stipendi e acquisti. E sappiamo bene che la spesa per investimenti – ormai ridotta a 36 miliardi, meno della metà di quanto paghiamo annualmente di interessi – è praticamente nulla, disossata dagli unici tagli che i precedenti Governi sono stati in grado di fare. Ergo, l’unica vera riduzione di spesa si deve fare sui costi fissi: bisogna aggredire le componenti strutturali della spesa e non solo i suoi aspetti patologici.

Invece, finora si è fatto il solito elenco degli sperperi, che vanno cancellati, ma certo non consentono risparmi significativi. I tecnici al Governo sono in possesso di comprovata esperienza relativamente alla spesa pubblica, ma non basta. Qui siamo di fronte al gioco dell’oca, o al Monopoli se si preferisce, dove si passa sempre dal “via”: i cittadini delegano i politici, che chiamano i tecnici, che chiamano i “supertecnici”, o commissari, che poi girano di nuovo la domanda (“segnalateci gli sprechi e le inefficienze”) ai cittadini sul web. Risultato? La spesa continua ad aumentare.

Sembra una barzelletta, eppure l’entrata in scena del “tecnico dei tecnici”, il deus ex machina Enrico Bondi, è cosa vera. Il suo curriculum manageriale parla chiaro: Montedison, Olivetti, Telecom, Sai, Lucchini. E Parmalat. Ovunque è andato, ha risanato aziende importanti da situazioni gravissime, anche se su di lui non tutti i giudizi convergono. Ora Bondi deve dimostrare di saper tagliare la spesa pubblica, ma per portarla dal 52% del PIL, qual è ora, ad un livello europeo – diciamo al 45%, sette punti in meno – non potrà puntare solo sugli sprechi che tanto fanno arrabbiare gli italiani, ma che poco contribuiscono a formare i grandi numeri. Sarà necessario attaccare le maggiori voci della spesa corrente, dalla sanità alla Pubblica Amministrazione.

Roba da impallidire. Tanto più per chi, come Bondi, lo Stato non lo conosce affatto. I suoi trascorsi professionali saranno anche eccellenti, ma non in linea con il compito che Monti gli ha dato: lo Stato non è un’azienda e la spesa pubblica non ha nulla a che vedere con il bilancio societario. E soprattutto, a dire l’ultima parola sarà comunque la politica, rappresentata da quei partiti che non sono stati in grado, o non hanno mai avuto intenzione, di tagliare la spesa riformando la macchina statale. Né è credibile che Bondi possa cambiare le cose da qui a settembre.

Luigi Einaudi diceva: “Conoscere per deliberare”. La spending review appartiene al “conoscere”, poi serve “deliberare”. Sappiamo già benissimo che si spende troppo e male. Il problema è che proprio il “deliberare” sarà poi nuovamente soggetto al vaglio della politica, che, salvo improbabili resipiscenze, impedirà qualunque intervento serio e strutturale. E l’unica soluzione percorribile saranno i disastrosi tagli lineari, perché quando in un gruppo non si identifica il colpevole, la regola è punire tutti, indistintamente.

La Bce suggerisce di accorpare le Province. Ricetta monca: è l’intera architettura del decentramento istituzionale che va rivista, perché elefantiaca, burocratica, produttrice di diritti di veto paralizzanti, e non solo perché costosa. E se l’obiettivo è renderla snella e produttiva, ecco che la sua radicale semplificazione diventa lo strumento. Come? Creando 6-7 macro-Regioni, della stessa dimensione dei lander tedeschi, abolendo le inutili Province, costringendo ad accorparsi i Comuni sotto i 5mila abitanti (sono il 70%, cioè 5.664 su 8.092, e raccolgono solo il 17% della popolazione), sfoltendo le decine di soggetti di terzo e quarto grado, dalle Comunità montane agli enti di bacino.

Sarebbe comunque un buon inizio evitare di suggerire interventi lineari. Eppure, quando si legge nel DEF che le spese dei Ministeri diminuiranno di 13 miliardi tra il 2012 e il 2013 passando da 352 a 339 miliardi, non si ha l’impressione di un cambiamento significativo delle politiche fin qui attuate. L’approccio va rovesciato: non bisogna fare contenimento della spesa per ragioni di bilancio, ma attuare riforme strutturali per rendere più efficiente la macchina dello Stato e privatizzare l’erogazione di alcuni servizi, per poi ottenere anche vantaggi di finanza pubblica. Così facendo, si ridisegnerebbe in modo moderno la burocrazia centrale e periferica, risparmiando a regime oltre un centinaio di miliardi. Altro che i 13 miliardi previsti dal DEF o i 25 che pare siano l’obiettivo di Monti.

O la spending review è questo, o sarà l’ennesima illusione che avremo creato a danno di noi stessi. La speranza c’è e ci deve essere, l’importante è che non sia l’unica a sopravvivere. Magari solo una “speranza tecnica”.

Il 56,5% del debito a fine 2010 si è formato nella Seconda Repubblica

Un nostro studio analizza la crescita del debito pubblico suddivisa per i Governi susseguitisi dal 1992 ad oggi.

Il debito pubblico italiano è di circa 1.900 miliardi di euro. Il dato è noto ai più, almeno quanto l’idea che a creare quel debito enorme siano stati i Governi succedutisi durante la Prima Repubblica, con una gestione scellerata dei conti e l’utilizzo della Pubblica Amministrazione come ammortizzatore sociale.

Se, però, il primo assunto rimane incontrovertibile, il secondo sembra essere solo un falso luogo comune, scorrendo i dati del nostro studio. I numeri (elaborati da Eutekne.info sui dati ISTAT resi noti fino al 31 dicembre 2010) dimostrano, infatti, che solo il 43,5% di quel debito si è formato prima dell’uragano “Tangentopoli” e del primo insediamento di Giuliano Amato (28 giugno 1992) a Palazzo Chigi. Il restante 56,5% si è, invece, accumulato nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica.

Sbagliato, dunque, differenziare i due periodi attraverso un dato quantitativo. Se proprio deve esserci una differenza, questa va individuata dal punto di vista qualitativo: rispetto alla prima Repubblica, quando il bilancio dello Stato chiudeva in negativo ancor prima di conteggiare la spesa per il pagamento degli interessi passivi sul debito accumulato, nella seconda Repubblica, il bilancio chiudeva quantomeno con un avanzo, salvo poi computare la spesa per il pagamento degli interessi passivi accumulati fino all’anno precedente.

Negli anni della Seconda Repubblica, la crescita del debito pubblico (si veda tabella 1) è stata più consistente durante gli ultimi Governi Berlusconi (+11,53% nel periodo che va dall’11 giugno 2001 al 17 maggio 2006; +11,84% dall’8 maggio 2008 al 31 dicembre 2010), seguiti da due Governi tecnici, quello Ciampi a cavallo tra il 1993 e il 1994 (+6,15%) e quello Dini (+5,51%), cui il 17 gennaio 1995 venne affidata la Presidenza del Consiglio dopo la caduta del primo Governo Berlusconi.

Aggregando i dati e riclassificandoli per Presidente (si veda tabella 2), i Governi presieduti da Silvio Berlusconi hanno contribuito all’accumulo di debito pubblico per il 27,41%. Più staccati Prodi (i cui due Governi hanno prodotto l’8,81% del totale), Amato (6,64%) e Ciampi (6,15%). Le statistiche riflettono d’altro canto il numero di giorni al Governo, se si eccettua il caso Ciampi, il cui mandato, in 377 giorni, è riuscito a creare più debito dei Governi Dini (5,51%) e D’Alema (1,99%), durati rispettivamente 485 e 551 giorni.

“I numeri risultanti da questo studio – spiega il Direttore di Eutekne.info, Enrico Zanetti – sono stati ricavati associando i dati di contabilità pubblica ai singoli periodi di durata di ciascun Governo. È ovvio che, soprattutto per le esperienze di Governo particolarmente brevi, ci possa essere stato un implicito effetto trascinamento, tale per cui quantomeno una parte dei risultati prodotti può essere, di fatto, ascritta alle scelte politico-economiche del Governo precedente. Discorso che non può essere fatto per i Governi rimasti in carica per più di due anni consecutivi”.

Posto che anche i Governi della Seconda Repubblica hanno dato un contributo consistente alla crescita del debito, alcuni di essi sono riusciti quantomeno a ridurre, o a lasciare pressoché invariata, la spesa primaria, al netto dell’inflazione. Una cosa che è riuscita solo ai primi quattro Governi succedutisi dal 1992 in poi (si veda tabella 3), che a questa specifica voce hanno fatto registrare +0,47% (Amato I), -0,54% (Ciampi), -1,20% (Berlusconi I) e +0,14% (Dini).

A partire dal 1996, ovvero durante il primo Governo Prodi, la spesa pubblica è tornata a crescere in modo sostenuto (+6,01%), per poi riattestarsi sotto il 3% con i Governi D’Alema (+2,87%) e Amato II (+2,44%), fino all’esplosione del secondo Governo Berlusconi. Nel quinquennio che va dall’11 giugno 2001 al 17 maggio 2011, infatti, la spesa pubblica è cresciuta del 16,95%.

L’ultima parte del nostro studio fa riferimento ai livelli di pressione fiscale fatti registrare dal 1992 ad oggi (si veda tabella 4), oscillati, negli ultimi 20 anni, tra il 40,6% e il 42,6%. In generale, sono stati solo due i Governi capaci di ridurre la pressione fiscale al di sotto del 41%, entrambi guidati da Berlusconi, nel 1994-1995 e nel quinquennio 2001-2006. Ben quattro volte, invece, la pressione fiscale si è attestata al di sopra del 42%: durante l’Amato I (42,06%), il Prodi I (42,48%) il Prodi II (42,39%) e l’ultimo Governo Berlusconi (42,6%).

1970-2010: QUARANT’ANNI DI DEBITO PUBBLICO

TAVOLA 1 – RIEPILOGO PER SUCCESSIONE TEMPORALE 

GOVERNO

AREA POLITICA

DAL

AL

GIORNI DI DURATA

DEBITO ACCUMULATO

PRIMA REPUBBLICA

-

1.1.1970

28.6.1992

7844

53,73%

801.556

43,50%

AMATO

tecnico

28.6.1992

28.4.1993

304

2,08%

83.860

4,55%

CIAMPI

tecnico

28.4.1993

10.5.1994

377

2,58%

113.370

6,15%

BERLUSCONI

centro-destra

10.5.1994

17.1.1995

252

1,73%

74.452

4,04%

DINI

tecnico

17.1.1995

17.5.1996

485

3,32%

101.530

5,51%

PRODI

centro-sinistra

17.5.1996

21.10.1998

887

6,08%

76.464

4,15%

D’ALEMA

centro-sinistra

21.10.1998

25.4.2000

551

3,77%

36.589

1,99%

AMATO

tecnico

25.4.2000

11.6.2001

413

2,83% 

38.418

2,08%

BERLUSCONI

centro-destra 

11.6.2001

17.5.2006

1799

12,32%

212.552

11,53%

PRODI

centro-sinistra

17.5.2006

8.5.2008

721 

4,94% 

85.927 

4,66% 

BERLUSCONI 

centro-destra 

8.5.2008  

31.12.2010 

967 

6,62% 

218.108

11,84%

TOTALI DI COLONNA 

14600  

100% 

1.842.826  

100% 

      1970-2010: QUARANT’ANNI DI DEBITO PUBBLICO

      TAVOLA 2 – RICLASSIFICAZIONE PER PRIMO MINISTRO

 GOVERNO

AREA POLITICA 

GIORNI AL GOVERNO   

 DEBITO ACCUMULATO 

PRIMA REPUBBLICA

-

7844

53,73% 

801.556 

43,50% 

BERLUSCONI 

centro-destra 

3018 

20,67% 

505.113 

27,41% 

PRODI 

centro-sinistra 

1608 

11,01% 

162.391 

8,81% 

AMATO 

tecnico 

717 

4,91% 

122.278 

6,64% 

CIAMPI 

tecnico

377

2,58% 

113.370 

6,15% 

DINI 

tecnico 

485

3,32% 

101.530

5,51%

D’ALEMA

centro-sinistra

551

3,77%

36.589

1,99%

TOTALI DI COLONNA 

14600 

100% 

1.842.826 

100% 

  1992-2010: INCREMENTI REALI DELLA SPESA PUBBLICA GOVERNO PER GOVERNO     

       TAVOLA 3 – RIEPILOGO PER SUCCESSIONE TEMPORALE

 GOVERNO

AREA POLITICA 

 DAL

AL  

GIORNI DI DURATA 

 CRESCITA SPESA  

AMATO 

tecnico

28.6.1992

28.4.1993 

304 

4,50% 

1.590 

0,47% 

CIAMPI

tecnico 

28.4.1993 

10.5.1994 

377

5,58% 

-1.922 

-0,54% 

BERLUSCONI 

centro-destra 

10.5.1994 

17.1.1995 

252 

3,73% 

-4.422 

-1,20% 

DINI 

tecnico 

17.1.1995 

17.5.1996 

485 

7,18% 

528

0,14% 

PRODI 

centro-sinistra 

17.5.1996 

21.10.1998 

887 

13,13% 

23.957 

6,01% 

D’ALEMA 

centro-sinistra

21.10.1998 

25.4.2000 

551 

8,16% 

12.782 

2,87% 

AMATO

tecnico 

25.4.2000

11.6.2001 

413

6,11%

11.472 

2,44% 

BERLUSCONI 

centro-destra 

11.6.2001 

17.5.2006 

1799 

26,63% 

84.091 

16,95% 

PRODI 

centro-sinistra 

17.5.2006 

8.5.2008 

721 

10,67% 

10.679 

1,67% 

BERLUSCONI 

centro-destra 

8.5.2008 

31.12.2010 

967

14,31% 

14.662 

2,16% 

TOTALI DI COLONNA 

6756 

100% 

153.415  

 

       1992-2010: PRESSIONE FISCALE MEDIA GOVERNO PER GOVERNO

       TAVOLA 4 – RIEPILOGO PER SUCCESSIONE TEMPORALE

GOVERNO 

AREA POLITICA 

DAL 

AL 

  GIORNI DI DURATA

PF MEDIA 

AMATO 

tecnico 

28.6.1992 

28.4.1993 

304 

4,50% 

42,06% 

CIAMPI

tecnico

28.4.1993 

10.5.1994 

377 

5,58% 

41,96% 

BERLUSCONI 

centro-destra 

10.5.1994 

17.1.1995 

252 

3,73% 

40,60% 

DINI 

tecnico 

17.1.1995 

17.5.1996 

485 

7,18% 

41,04% 

PRODI 

centro-sinistra 

17.5.1996 

21.10.1998 

887

13,13% 

42,48% 

D’ALEMA

centro-sinistra 

21.10.1998

25.4.2000 

551 

8,16% 

41,83% 

AMATO 

tecnico 

25.4.2000 

11.6.2001 

413 

6,11% 

41,19% 

BERLUSCONI 

centro-destra 

11.6.2001 

17.5.2006 

1799 

26,63% 

40,64% 

PRODI 

centro-sinistra 

17.5.2006 

8.5.2008 

721 

10,67% 

42,39% 

BERLUSCONI 

centro-destra 

8.5.2008 

31.12.2010 

967 

14,31% 

42,60% 

TOTALI DI COLONNA    

6756 

100% 

Elaborazioni Eutekne.info su dati ISTAT

Le tariffe dei servizi pubblici, a esclusione di quelle legate alla telefonia, hanno subito degli aumenti boom. E' il risultato emerso da un'analisi effettuata  dell'ufficio studi della Cgia di Mestre, che ha analizzato l'andamento dei prezzi delle tariffe dei servizi pubblici tra il 2000 e i primi 10 mesi del 2011. Se in poco più di un decennio il costo della vita è aumentato del 27,1%, la tariffa dell'acqua potabile, ad esempio,  è cresciuta del 70,2%, quella della raccolta rifiuti del 61%, mentre i biglietti dei trasporti ferroviari sono aumentati del 53,2%. Di seguito ci sono i pedaggi autostradali, con un incremento del 49,1%, il gas, con una crescita del 43,3% e i trasporti urbani, con una variazione del 39,5%. Nella parte bassa della graduatoria troviamo i servizi postali (+30,4%), l'energia elettrica (+26,2%) e i servizi telefonici (-11%). Quest'ultima, è l'unica voce tariffaria che nel periodo preso in esame ha registrato una contrazione negativa.

"Come emerge dalla nostra analisi, le tariffe amministrate dai Comuni - commenta Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre - sono quelle che hanno subito le impennate più consistenti. Purtroppo, a fronte degli aumenti delle bollette dell'acqua o dell'asporto rifiuti, non è seguito un corrispondente aumento della qualità del servizio offerto ai cittadini. Anzi, in molte parti del Paese è addirittura peggiorato. In pratica, il ritocco all'insù delle tariffe è servito agli enti locali per far cassa, compensando, solo in parte, il taglio dei trasferimenti imposti in questi ultimi anni dallo Stato centrale".

L'analisi della Cgia è proseguita facendo un approfondimento sul periodo 2000-2008 (arco temporale pre-crisi) e quello 2008-2011 (periodo di crisi economica). Nel periodo pre-crisi, a fronte di una crescita dell'inflazione del +21,1%, gli aumenti più consistenti sono avvenuti nei servizi di raccolta dei rifiuti (+42%), nelle tariffe del gas (+38,7%) ed in quelle dell'energia elettrica (+36%). Nel quadriennio di crisi 2008-2011, invece, le impennate più decise le hanno subite le bollette dell'acqua (+25,5%), i biglietti dei trasporti ferroviari (+23,6%) ed i pedaggi autostradali (+16,6%). Sempre in questo periodo, invece, l'inflazione è aumentata del 4,9%.
DATI RIFERITI AL 31/12/2011

La scorsa settimana un’associazione non governativa che analizza dal 1995 il livello di corruzione percepita in tutti i Paesi del mondo ha aggiornato la classifica, ponendo l’Italia al sessantanovesimo posto, gomito a gomito con il Ruanda.
Risultato mediatico: qualche titolo sulle pagine interne dei giornali e qualche passaggio sui telegiornali.

Si dirà: è la classica ricerca “spannometrica” di dubbia sostenibilità scientifica.
Verissimo, ma allora perché, quando si tratta invece di evasione fiscale, anche le ricostruzioni più fantasiose e palesemente sensazionalistiche vengono sbattute in prima pagina?
Per tutti, basta prendere ad esempio la prima pagina di ieri del più importante quotidiano italiano, il Corriere della Sera, con un bel titolo sull’evasione fiscale, quintuplicata, oggi, rispetto a trent’anni fa.
Semplicemente ridicolo e tragicamente fuorviante.

L’evasione fiscale è oggettivamente uno dei problemi di questo Paese, ma fa il paio con il livello di corruzione che, stando alle statistiche, contraddistingue il settore pubblico e, più ancora, con l’uso personalistico di risorse e posti di lavoro pubblici che viene fatto da chi confonde il proprio ruolo di mero gestore con quello di padrone.
È difficile dire quale dei due mali produca i maggiori danni al Paese.
È invece facile concludere che lo spread tra il livello di attenzione prestato alla prima problematica e quello prestato alla seconda ha ormai raggiunto un’ampiezza che, se mai dovesse essere raggiunta anche tra titoli di Stato italiani e tedeschi, decreterebbe il fallimento immediato del Paese.

Sia chiaro che qui non vi è intenzione alcuna di fare “benaltrismo”: lo spread non deve essere ridotto diminuendo il livello di attenzione nei confronti della lotta all’evasione, ma è quanto mai urgente ripristinare un minimo di equilibrio innalzando in modo adeguato quello nei confronti degli sprechi, delle inefficienze e delle ruberie che penalizzano il bilancio dello Stato sul lato delle spese.
Lo spread tra attenzione nei confronti della lotta all’evasione fiscale e nei confronti della lotta agli sprechi, alle inefficienze e alle ruberie nel settore pubblico e del parapubblico è anche la cartina di tornasole di come stanno venendo meno gli equilibri tra politica e burocrazia, tra cittadini che vivono di iniziativa economica privata e cittadini che vivono di pubblico impiego.

Forse, questo spread sarebbe meno pronunciato di quanto non sia ora se nel Paese esistesse, oltre che un’Agenzia delle Entrate, anche un’Agenzia delle uscite, con pari budget, poteri e proattività mediatico-politica, anziché soltanto una Corte dei Conti che fa quello che può.
È indubbio infatti, che tanto maggiore è valutata un’emergenza, tanto maggiore è la centralità e il potere di chi è chiamato a gestire quell’emergenza, mentre, laddove manchi qualcuno deputato a gestirla, tanto minore è la “naturale” forza propulsiva a metterne in evidenza la gravità.

Bisogna smettere di considerare l’evasione fiscale l’unica priorità

Qui non si tratta di smettere di considerare la lotta all’evasione fiscale una priorità assoluta del Paese, si tratta di smettere di considerarla l’unica priorità e passare da un equilibrio al ribasso ad un equilibrio al rialzo.
L’alternativa è il disequilibrio che stiamo pervicacemente creando e sul quale, proprio in quanto disequilibrio, è illusorio che possa costruirsi una qualsiasi forma di coesione sociale.
Su un disequilibrio si può costruire, al massimo, una costrizione sociale, ma le costrizioni non durano e lasciano macerie su cui è più difficile ricostruire e talvolta diviene addirittura impossibile farlo.

La provocazione della costituzione di un’Agenzia delle uscite, che faccia pendant con quella delle Entrate, è piaciuta un po’ a tutti.

Un modo come un altro per richiamare l’attenzione sul pericoloso disequilibrio che si sta sempre più evidenziando, in termini di attenzione e determinazione, tra caccia e punizione di coloro che rubano alla collettività omettendo di versare imposte in misura proporzionata alla loro capacità contributiva e coloro che rubano alla collettività dissipando risorse pubbliche o comunque percependole indebitamente. Alla faccia del “benaltrismo”, questo pericoloso disequilibrio, certamente foriero di creare, già nel breve periodo, un torbido clima di coercizione sociale, anziché uno auspicabile di coesione sociale, lo dobbiamo risolvere non abbassando il livello di guardia della lotta all’evasione, bensì alzando ad un pari livello di intensità il livello di guardia della lotta alla corruzione e agli sprechi.

Come si fa? Semplice: trasformando la storica e ormai datata Corte dei Conti in una frizzante e potentissima Agenzia delle uscite, così come’è stato mirabilmente fatto in questi anni con la trasformazione degli Uffici delle Imposte in Agenzia delle entrate. Sin qui la provocazione, d’accordo. Come si fa, però, in concreto, a trasformare la Corte dei conti in una Agenzia delle uscite che non debba vergognarsi, al cospetto della sua sorella maggiore, di portare questo nome? Ancora più semplice: le si attribuiscono le stesse risorse e, soprattutto, gli stessi poteri.
Innanzitutto, dunque, circa 3 miliardi di euro di fondi disponibili per strutturarsi, ramificarsi nel territorio e fare pure campagne pubblicitarie contro la corruzione e gli sprechi. Dopodiché, tanto per cominciare, si attribuisce efficacia esecutiva agli atti con cui la Corte dei conti, novella Agenzia delle uscite, quantifica un presunto danno erariale commesso dall’amministratore Tizio, dal dirigente Caio, dal consulente Sempronio o dal falso invalido Mevio: decorsi 60 giorni, pronti via con ipoteche e fermi amministrativi; poi, decorsi inutilmente altri 180 giorni, via con la procedura esecutiva.

E se intanto il malcapitato fa ricorso, perché ritiene ingiusta la contestazione, o quanto meno sproporzionata la somma che gli viene richiesta? Per intanto, il 30% lo paga comunque; e, se poi salta fuori in Tribunale, mesi o anni dopo, che aveva ragione lui, gli si restituiranno i soldi quando si potrà. E, perché no, anche una bella disciplina dei “posti di lavoro di comodo”, per effetto della quale, in presenza di un determinato numero di giorni di assenza per malattia, si presume che il pubblico dipendente sia in realtà un lavativo e, pertanto, si prevede un ammontare massimo di retribuzione sopra la quale non può andare, anche se i contratti collettivi prevedono importi superiori? Naturalmente, andrebbero previste delle cause di disapplicazione della disciplina (ad esempio, i casi in cui il dipendente ha avuto almeno dieci figli da mantenere nell’ultimo biennio) e andrebbe comunque consentita la possibilità che il dipendente presenti apposita istanza al Direttore dell’Agenzia delle uscite per dimostrare che, nonostante tutto, non è un lavativo e gli è stato oggettivamente possibile recarsi al lavoro per cause a lui non imputabili.

Non dimentichiamo poi opportuni obblighi di comunicazione telematica all’Agenzia delle uscite per professori universitari, magistrati, primari ospedalieri e altri alti dirigenti che, fatalità, si ritrovano in pubbliche amministrazioni nelle quali risultano assunti anche coniugi, parenti e affini: la famosa “comunicazione telematica dei posti di lavoro assegnati ai familiari”, con integrale trattenuta della busta paga nel caso in cui quella del familiare assegnatario risulti superiore al valore normale attribuibile alla sua prestazione lavorativa.

Infine, ma in realtà una fine potrebbe non esserci mai, il colpo da maestro: lo “sprecometro”.
Uno strumento geniale che stima le risorse pubbliche dissipate da ciascun politico e dirigente pubblico, con inversione della prova in capo a quest’ultimo, calcolando le somme da contestargli sulla base della durata delle sue pause caffè, dell’incuria nella pulizia del suo ufficio e di fattori standardizzati su base statistica, elaborati individuando gruppi omogenei di dipendenti pubblici, a cominciare dal fattore della territorialità (in alcune aree gli sperperi sono maggiori che in altri) e da quello del nucleo familiare (perché, più uno tiene famiglia, e più e lecito presumere che ceda alla tentazione). È indubbio che, a pensarci bene, si corre il rischio che, così, più nessuno abbia voglia di fare il politico, il dirigente o il dipendente pubblico, sentendosi considerato malversatore fino a prova contraria e avvertendo una totale mancanza di adeguate tutele rispetto allo strapotere di un’Agenzia delle uscite che, per quanto istituzione del Paese votata a fare del suo meglio, è comunque un apparato burocratico che può sbagliare come tutti.

Tuttavia, considerato che ci sono ancora in questo Paese “pazzi” che mandano avanti piccole o grandi imprese e studi professionali, nonostante tutto questo e molto altro sia per loro già realtà, è evidentemente un rischio che si può correre.
Si ride per non piangere, signori: si ride per non piangere.

L’audizione alla Camera del Presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, non poteva essere più opportuna e tempestiva. L’alto magistrato contabile ha messo in fila alcuni concetti assolutamente fondamentali che in queste ultime settimane erano già stati portati all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica: la corruzione, gli sprechi e le ruberie nel settore pubblico sono in preoccupante crescita e costano alla collettività qualcosa come 60 miliardi di euro all’anno, cui si aggiungono i costi impliciti derivanti dalla minore attrattività del Paese per gli investitori esteri a causa del fenomeno; la Corte dei Conti, organo preposto a contrastare questo fenomeno, è assolutamente priva di risorse e mezzi legislativi adeguati, tanto che nel 2010 il totale delle somme recuperate è stato di appena 293 milioni di euro; manca, infine, un’Authority indipendente che sia braccio operativo della Corte dei Conti.

Fino a qualche anno fa, questo Paese ha vissuto su un equilibrio degli squilibri: da un lato, scarsa efficienza e determinazione nel contrastare l’evasione fiscale del settore privato; dall’altro, scarsa efficienza e determinazione nel contrastare ruberie e indebita percezione di risorse pubbliche nel settore pubblico. Sotto i colpi di una crisi sempre più drammatica, la quadratura del cerchio è stata tentata a senso unico: concentrando tutta l’attenzione e tutte le risorse sulla lotta all’evasione fiscale; stratificando norme sempre più draconiane in materia di accertamento e riscossione che, da gennaio 2012, attribuiscono poteri di indagine all’Agenzia delle Entrate quasi senza riscontri in altri Paesi; moltiplicando adempimenti e soprattutto presunzioni che, nel rapporto con il Fisco, spostano sul contribuente l’onere di provare la sua innocenza e trasformano così il cittadino, l’imprenditore e il libero professionista in evasore fino a prova contraria.

Se tutto questo fosse stato fatto agendo in parallelo anche sull’altro fronte, staremmo forse passando, seppur con molti mal di pancia, da una finta coesione sociale basata su un equilibrio al ribasso, giocato tutto sulla testa delle future generazioni, ad una vera coesione sociale basata su equilibrio al rialzo, fatto di responsabilità civile e consapevolezza dei propri doveri di cittadinanza. Invece no: si sono creati i presupposti per uno squilibrio pericolosissimo, dal quale può discendere tutt’al più il convincimento di una parte del Paese di essere vittima di una coercizione sociale alla quale, è solo questione di tempo, si ribellerà, con esiti che potrebbero essere drammatici e che devono essere scongiurati.

Non bisogna recedere di un metro dalla lotta all’evasione fiscale, ma non ci si può neppure stupire o indignare se, di fronte a un simile ricorso a due pesi e due misure, tra la ricerca e la punizione di chi ruba alla collettività non versando e di chi lo fa sperperando o percependo indebitamente risorse pubbliche, il privato che si vede sottoposto a verifiche e questionari con rilevanza penale delle sue risposte, che si vede raggiunto da accertamenti esecutivi anche se fa ricorso, che si vede quantificare redditi presunti su base statistica, non vede nell’azione dello Stato alcuna salutare efficienza a favore di tutti, bensì soltanto ferocia per consentire ad alcuni di proseguire quella festa che per lui è finita.

Numeri alla mano, il Presidente della Corte dei Conti ha lanciato l’allarme sull’inadeguatezza di una struttura che, ai “bei tempi”, faceva il paio con Uffici delle Imposte “lenti”, ma che oggi non può certo competere con un’Agenzia delle entrate “rock”, dotata di poteri eccezionali e finanziata dal bilancio dello Stato per poco meno di 3 miliardi di euro. Diamo adeguate risorse anche alla Corte dei Conti, così che possa strutturare in Authority indipendente un proprio braccio operativo: l’Agenzia delle uscite.

Oggi lo Stato “investe” in lotta all’evasione 2.865 milioni di euro, contro appena 300 milioni in lotta alla corruzione e agli sprechi di denaro pubblico: queste le assegnazioni di fondi statali che emergono dai bilanci 2010 dell’Agenzia delle Entrate e della Corte dei Conti. Se l’evasione fiscale ci costa 120 miliardi di euro all’anno e la corruzione 60, non sarebbe ragionevole che lo Stato investisse in proporzione per combattere due fenomeni che sono due facce di una stessa medaglia? Dopodiché, diamo all’Agenzia delle uscite il potere di emettere atti di contestazione del danno erariale, imputato al politico, al dirigente o al dipendente pubblico, che siano immediatamente esecutivi anche in pendenza di ricorso, per il 30% delle somme contestate, come avviene per cittadini, imprese e liberi professionisti che si vedono contestare imposte evase dall’Agenzia delle Entrate.

Se, pur di debellare la piaga dell’evasione fiscale, riteniamo accettabile lasciare i contribuenti esposti ai rischi di errore di un apparato pubblico che può pur sempre sbagliare, perché, pur di debellare corruzione, ruberie e sprechi di denaro pubblico, non dovremmo ritenere accettabile lasciare i politici, i dirigenti e i dipendenti pubblici esposti ad analoghi rischi di errori da un altro ente meritevole di pari stima e considerazione?

È sull’equilibrio che si fonda la coesione sociale. Tanto meglio se al rialzo, invece che al ribasso, ma deve essere un equilibrio. Altrimenti, tanti saluti.

Da Eurostat e Istat, dito nella piaga delle contraddizioni italiane

L’Eurostat non avrebbe potuto essere più tempestivo.
I dati diffusi l’altro giorno certificano il basso livello degli stipendi italiani nel settore privato, proprio mentre in Italia si prende atto di come, invece, nel settore pubblico gli stipendi dei dirigenti siano tra i più generosi d’Europa e forse del mondo.

Non è vero, come era sembrato a una prima lettura dei dati, che persino la Spagna e la Grecia ci sopravanzino: l’Istat, nella giornata di ieri, ha con pari tempestività spiegato dove risiedeva l’errata lettura di dati offerti dall’Eurostat in modo evidentemente un po’ criptico.

È però vero che il valore dello stipendio annuo di un lavoratore di un’azienda dell’industria o dei servizi, con almeno dieci dipendenti, si attesta in Italia su livelli inferiori alla media dei sedici Paesi dell’eurozona e su livelli nettamente inferiori a quelli di Paesi come la Francia e la Germania: nel 2008, 29.653 euro contro, rispettivamente, 34.392 euro e 38.005 euro.

Se, nel confronto tra diversi Paesi, alcune (e sottolineiamo alcune) differenze possono trovare parziale (e sottolineiamo parziale) risposta nei diversi livelli di costo della vita che li caratterizzano, nemmeno questa argomentazione può essere sollevata nell’istante in cui si rimane all’interno di un medesimo Paese e, in relazione ad esso, si constata l’esistenza di stipendi del settore privato abbondantemente sotto la media e stipendi per le posizioni apicali del settore pubblico abbondantemente sopra la media.

Quanti sono, nel settore privato di un Paese con livelli remunerativi sotto la media, i manager, i dirigenti e i liberi professionisti che guadagnano più di 300mila euro all’anno e per di più in modo stabile per molti anni consecutivi?
Ha senso che, in un Paese del genere, le cui difficoltà sono peraltro riconducibili proprio alla tenuta dei conti pubblici, dirigenti di Pubbliche Amministrazioni, componenti di authority, direttori di agenzie, amministratori di società interamente partecipate dallo Stato, da Regioni o enti locali e operanti in regime monopolistico di concessione, percepiscano dalla collettività remunerazioni ampiamente superiori, o magari più remunerazioni inferiori a fronte di una pluralità di incarichi che, cumulandosi tra loro, portano al medesimo risultato?

Se tutto questo fosse solo un’ingiustizia sociale, potremmo serenamente indignarci per una o due settimane e poi lasciare tutto come sta. Non possiamo però permettercelo perché, invece, siamo di fronte a una delle ragioni che stanno alla base del processo d’involuzione che sta portando i cittadini di questo Paese a rischiare seriamente di passare dalla dieta alla fame con la stessa velocità con cui, decenni addietro, passarono dalla fame alla dieta.

Un Paese in cui fare carriera nel pubblico impiego o nel parastato è, in termini probabilistici, economicamente più conveniente che fare carriera in un’azienda privata o avviare una propria attività professionale autonoma, è un Paese destinato in partenza al fallimento produttivo e alla corruzione dilagante.
Sarebbe vero anche in un contesto di massima trasparenza amministrativa; figuriamoci in un contesto di opacità spesso imbarazzante.

L’evasione dei sudditi “interessa” più degli stipendi dei sovrani

Servire le istituzioni comporta un riconoscimento sociale che trae le proprie premesse proprio dalla scelta di campo fatta da chi, evidentemente, preferisce impegnarsi nel pubblico, invece che inseguire nel privato guadagni più lucrosi di quelli che, a parità di professionalità, può ottenere da servitore dello Stato.
Abbinare riconoscimento sociale del proprio ruolo pubblico a remunerazioni da settore privato significa gettare le basi per creare un autentico cortocircuito valoriale.
Un tetto di 300mila euro annui per i grand commis di Stato è ben lungi dal rappresentare una mossa viziata da populismo pauperistico, tanto più in un Paese in cui, nel settore privato, 300mila euro annui rappresentano una somma superiore di oltre dieci volte il livello medio delle remunerazioni.

Chi ritiene che una simile somma non valorizzi adeguatamente la propria professionalità, nemmeno tenendo conto del riconoscimento sociale che, giustamente, si accompagna a certi incarichi svolti nell’interesse della collettività, è libero di andare a guadagnarseli nel settore privato quando meglio crede.
Se stessimo parlando dell’evasione fiscale dei sudditi, la norma sarebbe già in vigore da ieri, senza deroghe e senza bisogno di regolamenti attuativi destinati a perdersi nei meandri dei palazzi.
Il punto è che stiamo parlando degli stipendi dei sovrani

Corruzione ed evasione due facce della stessa medaglia

Allarmi e casi di cronaca, l’ultimo in Lombardia, continuano a susseguirsi sul problema della sempre più dilagante corruzione nella politica e nel settore pubblico, ma le iniziative legislative continuano a latitare.
Bisogna riflettere con quella calma e quella prudenza che mai è stata invece ritenuta necessaria sul fronte della lotta all’evasione fiscale, per la quale provvedimenti istintivi e sommari assunti a furor di popolo costituiscono la regola degli ultimi anni.

Eppure, evasione fiscale nel settore privato e corruzione nel settore pubblico sono due facce della stessa medaglia: entrambe sono comportamenti che impoveriscono la collettività, piegando la ragione comune all’interesse individuale.
Anzi, se proprio si dovesse fare un’invero sciocca classifica di chi è più parassita tra l’evasore e il corrotto (sciocca perché parassiti lo sono entrambi e tanto basta), non vi è dubbio alcuno che il corrotto lo sia più dell’evasore, posto che quest’ultimo si prende quantomeno la briga di creare la ricchezza su cui omette, poi, di adempiere il proprio obbligo contributivo.

Perché, allora, la politica, le alte cariche istituzionali del Paese e i supertecnici con superstipendi che presidiano Pubbliche Amministrazioni, Agenzie e authority varie sostengono a spada tratta qualsiasi misura draconiana contro l’evasione fiscale, ma al tempo stesso condividono la necessità di procedere con i piedi di piombo sul fronte della corruzione?

La risposta più maliziosa, ma oggettivamente anche più immediata, è che la loro non sia la battaglia di legalità dei padri della patria nel nome del bene comune, ma una semplice difesa dello status quo.
Nell’istante in cui scarseggiano le risorse finanziarie per mantenere inalterato l’apparato statale, l’evasione fiscale diventa un reato che mette in pericolo lo status quo e, come tale, diventa meritevole di essere perseguito con quella determinazione che altre forme di illegalità assolutamente equivalenti non meritano, perché, evidentemente, non sono l’illegalità e l’equità il punto.

Se mai vedrà la luce in Italia un intervento legislativo serio contro la corruzione, è comunque auspicabile che esso non si concentri più di tanto sull’aspetto penale.
Le pene possono essere inasprite, ma non è quello il punto decisivo, esattamente come non lo è per la lotta all’evasione fiscale, nonostante, anche nelle recenti manovre di Tremonti e di Monti, se ne abbia fatto ricorso a piene mani.

Evasione e corruzione sono reati patrimoniali, frutto dell’ingordigia individuale.
Lo spauracchio maggiore per chi li commette non è tanto farsi qualche mese o anno di galera (per poi tornare fuori e godere della propria malversazione), ma l’altissima probabilità, una volta scoperto, di vedersi portare via rapidamente il triplo o il quadruplo di quanto negli anni ha accumulato alle spalle della collettività.

Si dovrebbe applicare lo stesso trattamento anche per i corrotti

Se si ritiene che lo stato di emergenza sia tale da poter mandare in soffitta il garantismo patrimoniale nei confronti del presunto evasore fiscale, che ricorre al giudice, ma rimane comunque tenuto a versare almeno il 30% anche in pendenza di giudizio, si faccia altrettanto per il presunto corrotto, oppure non lo si faccia affatto.
D’altro canto, è difficile pensare che un’indagine condotta da un magistrato inquirente non possa vedersi riconosciuto lo stesso credito, in pendenza di giudizio, che già oggi viene riconosciuto a un accertamento fiscale condotto da un “mero” funzionario del Fisco.
È indubbio che tutto ciò aumenterebbe ancora lo Stato di polizia finanziaria che sta venendo scientemente costruito, ma almeno ripristinerebbe quell’equilibrio che oggi manca totalmente e che, proprio in quanto assente, sta portando a dei veri e propri eccessi a senso unico.

Vivere in un Paese pieno di contribuenti che evadono e di politici e dirigenti pubblici che si fanno corrompere non è piacevole.
Vivere in un Paese in cui è lo Stato stesso, con le sue leggi e quelle che mancano, a certificare che il politico o dirigente pubblico potenzialmente corrotto sia un sovrano da trattare con i guanti, mentre il cittadino potenzialmente evasore è un suddito da perseguire con ogni mezzo, va molto, ma molto oltre lo spiacevole.

Agenzia delle Uscite, il tempo è arrivato

La nomina di Enrico Bondi a supertecnico dei tagli di spesa non sortirà effetti miracolistici se non sarà accompagnata anche dall’attribuzione di superpoteri.

Servono poteri coercitivi, responsabilità chiare e conseguenze sanzionatorie rilevanti e veloci per eliminare sprechi e inefficienze delle Pubbliche Amministrazioni centrali e di quelle periferiche.
Se un titolare di partita IVA non effettua in via telematica, alle prescritte scadenze, le comunicazioni dei dati che gli vengono richiesti dall’Agenzia delle Entrate per una più efficace lotta all’evasione, è soggetto a rilevanti sanzioni pecuniarie. Cosa succede al dirigente di un’Amministrazione o di un Ufficio che fornisce dati incompleti o reticenti sugli incarichi dei dirigenti, sul parco autovetture a disposizione o su altre voci che gli vengono richieste ai fini di un puntuale censimento finalizzato ad una più efficace lotta agli sprechi e alle doppie o triple remunerazioni?

Se un contribuente è destinatario di un avviso di accertamento, con il quale l’Agenzia delle Entrate contesta un determinato importo di tributi evasi, può fare ricorso alla magistratura tributaria, ma l’accertamento rimane comunque esecutivo per il 30% anche in pendenza di giudizio.
Perché, se Enrico Bondi e la sua task force individuassero nello svolgimento del loro lavoro delle situazioni in cui ritenessero di poter contestare un danno erariale, non dovrebbero poter emettere apposito avviso nei confronti dei soggetti responsabili, lasciando a questi ultimi la possibilità di ricorrere presso la magistratura contabile, ferma restando l’esecutività del 30% degli importi contestati?

E perché, infine, un gruppo di lavoro di questo tipo, con questi compiti e questi poteri, dovrebbe essere limitato a contingenze eccezionali quali quella attuale, invece che strutturarsi in modo permanente e divenire quell’Agenzia delle Uscite di cui il Paese ha bisogno non meno di quanto lo Stato abbia bisogno dell’Agenzia delle Entrate?

I passi avanti compiuti dal 2006 in poi sul fronte della lotta all’evasione fiscale non si sono realizzati semplicemente nominando un direttore capace, ma anche e soprattutto implementando i poteri ispettivi e coercitivi dell’Agenzia delle Entrate e di Equitalia.
Un’implementazione che è stata a buon diritto assai poco digerita anche da tanti cittadini che, pur non tifando per gli evasori, proprio non ce la fanno a tifare per uno Stato così incapace di applicare a se stesso la ricetta che pretende di applicare a loro.

Per un riequilibrio al rialzo, non al ribasso

Con l’Agenzia delle Uscite, si vince sul fronte della lotta agli sprechi e alla corruzione nel settore pubblico e si trasforma la lotta all’evasione fiscale, da battaglia di uno Stato vorace contro i cittadini a naturale approccio rigoroso di uno Stato intransigente innanzitutto con chi opera in suo nome.
Questa è la via da seguire, non quella indicata oggi da una politica che sembra più incline ad avallare il desiderio di fuga dei cittadini dai loro obblighi che non a proporre un analogo rigore nei confronti di se medesima, del pubblico e del parapubblico.

A sua volta, il Governo Monti non può, però, limitarsi a stigmatizzare senza eliminare l’evidente e insopportabile disequilibrio che oggi esiste tra contribuenti sudditi e Stato sovrano.
È un disequilibrio che non può durare e, in un modo o nell’altro, sarà spezzato.
Noi siamo per il riequilibrio al rialzo, non per quello al ribasso.
Noi siamo per l’Agenzia delle Uscite.

Meglio tagliare sui sindacati che sui buoni pasto 19.07.2012

Articolo a cura di Enrico ZANETTI

Il diavolo spesso si nasconde nei dettagli e la spending review non fa eccezione.
Tra le tante norme di maggiore impatto che sono presenti nel testo del decreto, ve n’è una che mira a porre delle nuove limitazioni all’attribuzione dei buoni pasto ai lavoratori del pubblico impiego.
Il risparmio che dovrebbe discendere da essa è di 50 milioni di euro.

Niente da dire sulla norma in se stessa, pur nella sua poca piacevolezza.
Molto da dire, invece, sul fatto che il testo del decreto approvato dal Governo non comprenda anche altre disposizioni che, nelle versioni non ufficiali circolate in precedenza, erano presenti, come presente era quella, poi confermata, dei buoni pasto.
Di quali disposizioni “apocrife” parliamo?
In primo luogo, il taglio da 14 a 13 euro dei compensi riconosciuti dallo Stato ai CAF per l’attività di assistenza fiscale da questi prestata in relazione ai modelli 730.
In secondo luogo, il taglio del 10% dei trasferimenti a favore dei patronati sindacali.
In terzo luogo, il taglio del 10% dei permessi sindacali retribuiti.
Tre disposizioni di cui è dato sapere con certezza quanto risparmio di spesa avrebbero generato solo con riguardo alla prima: circa 15 milioni di euro.

Vi è da credere che l’insieme delle tre, ove confermate nel testo ufficiale del decreto, avrebbe potuto determinare un intervento più tenue sui buoni pasto dei dipendenti pubblici, o addirittura avrebbe potuto sostituirlo, consentendo di espungere quest’ultimo al loro posto.
Ebbene, ribadito che i testi circolati prima di quello ufficiale sono stati smentiti dal Governo, ma osservato anche che la loro aderenza a quello poi divenuto ufficiale è stata alquanto rilevante, diviene lecito chiedersi: sono questi i risultati dei minimi spazi lasciati alla concertazione?
Rispetto ai testi provvisoriamente circolati, la preoccupazione dei sindacati è stata quella di ottenere l’espunzione dei tagli che li riguardavano direttamente, anche se il loro mantenimento nel testo finale avrebbe potuto evitare, in tutto o in parte, il taglio dei buoni pasto dei lavoratori pubblici?

Solo una domanda e nulla più, ovviamente.
La risposta probabilmente non la conosceremo mai.
Eppure, fermo restando che le esigenze di riduzione della spesa sono tali da rendere necessaria l’adozione di tutte le misure che erano state ipotizzate e molte, moltissime altre ancora, non vi è dubbio che qualche sana limatura ai fondi pubblici che, per un verso o per l’altro, finiscono nei bilanci dei sindacati e dei patronati sarebbe assai più equa di quelle che colpiscono direttamente i pranzi dei lavoratori.

Solo dall’attività di assistenza fiscale prestata sui modelli 730, i CAF percepiscono dallo Stato oltre 300 milioni di euro, la gran parte dei quali va ai CAF dei grandi sindacati del lavoro dipendente.
Quanto tutto questo sia un vero e proprio regalo che lo Stato ha fatto ai sindacati del lavoro dipendente, nella prima metà degli anni ’90, è testimoniato dal fatto che, per l’inoltro delle altre dichiarazioni fiscali, lo Stato ha riconosciuto invece compensi minimi per l’attività di elaborazione ed inoltro telematico, fino ad arrivare, di recente, ad azzerare del tutto i minimi compensi sino ad allora riconosciuti agli intermediari fiscali.

Si dirà: chi va dal commercialista o da un altro intermediario fiscale paga di tasca propria la consulenza ricevuta nella predisposizione della dichiarazione e quindi, tutto sommato, non ha senso che lo Stato si faccia carico anche di un ragionevole compenso per la successiva attività di elaborazione ed inoltro telematico.
Questa considerazione, tuttavia, è ben lungi dall’essere dirimente, posto che anche i CAF, quando il contribuente non si presenta con il modello 730 già compilato, si fanno remunerare per l’attività di assistenza finalizzata alla predisposizione del modello e prodromica alla sua elaborazione e inoltro telematico.

Insomma, se piccoli e piccolissimi studi di commercialisti possono loro malgrado permettersi il lusso di spedire all’amministrazione finanziaria, gratuitamente per lo Stato, le dichiarazioni che predispongono, vivendo di quello che guadagnano per l’attività di assistenza nella loro predisposizione, si fatica davvero a capire perché non dovrebbero potercela fare strutture di dimensioni mille volte maggiori che possono beneficiare di economie di scala nemmeno confrontabili.

In epoca di spending review, c’è poco spazio per permettersi “regali”.
E, se proprio se ne dovesse fare qualcuno, meglio farlo ai lavoratori che vanno a pranzo, piuttosto che a strutture che tendono principalmente ad alimentare se stesse e la loro burocrazia interna.